🟥IL FONDO PATRIMONIALE E’ MORTO? PER LA CASSAZIONE E’ VIVO E STA BENISSIMO

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Una ritrovata tutela per le famiglie indebitate: osservazioni a margine della recentissima Cass. civ., Sez. III, 28 settembre 2023, n. 27562. Come tutti sanno, il nostro ordinamento consente di destinare determinati beni a tutela della famiglia, conferendoli in un patrimonio separato, noto come fondo patrimoniale.

L’istituto in questione è disciplinato all’art. 170 del codice civile e la sua precipua funzione è quella di impedire ai creditori di aggredire i beni conferiti dai coniugi nel fondo per debiti contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.
Il più delle volte, i coniugi destinano al fondo regolato dall’art. 170 c.c. l’unico immobile di proprietà che costituisce la residenza della famiglia.

Cosa succede quando uno od entrambi i coniugi contraggono debiti con un istituto di credito? L’immobile dove risiede la famiglia è al riparo da eventuali azioni della banca?

La Corte di Cassazione, negli anni, ha fornito un’interpretazione molto ampia della nozione di obbligazioni contratte per soddisfare i bisogni della famiglia, ritenendo compresa nei bisogni della famiglia ogni tipo di esigenza che risulti volta al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi.


Ma veniamo al dunque: i debiti bancari possono ritenersi contratti per soddisfare bisogni familiari, nel senso sopra inteso dalla Suprema Corte? Dipende. Ma da cosa?

Secondo un primo e più risalente indirizzo dei Supremi Giudici nel concetto di debito lato sensu familiare potrebbe rientrare anche quello contratto da un imprenditore commerciale con un istituto di credito in base all’argomentazione per cui il potenziamento dell’impresa, attuato mediante l’apertura di un finanziamento, non sarebbe fine a sé stesso, ma sarebbe funzionale a far fronte ai bisogni familiari (Cass., sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4011; Cass., sez. III, 7 febbraio 2013, n. 2970; Cass., sez. I, 18 settembre 2001, n. 11683).


Infatti, in linea generale, anche il debito sorto per l’attività professionale o d’impresa di uno o di entrambi i coniugi potrebbe rientrare nella nozione – molto ampia – di debito contratto per esigenze della famiglia, vanificando, così, la tutela offerta dal fondo patrimoniale dinanzi ai creditori (fra le più recenti pronunce in questo senso vedi: Trib. Bergamo, 11 ottobre 2022, n. 2217; Trib. Pordenone, 12 febbraio 2021).

Dunque, niente da fare?
Stando alla rigorosa impostazione sopra tratteggiata, la famiglia dovrebbe essere sempre destinata a soccombere di fronte alla banca che iscriverebbe, dapprima, ipoteca e poi pignorerebbe la casa di famiglia.

Ma è proprio così?

No, come detto, dipende: secondo la Cassazione occorre, infatti, una valutazione caso per caso, per stabilire se l’obbligazione contratta con la banca dall’impresa di uno o di entrambi i coniugi è o meno funzionale al mantenimento e allo sviluppo, anche in senso lato, della famiglia.
Invero, secondo un più recente orientamento, se è pur vero che nei bisogni familiari possono rientrare anche le obbligazioni assunte per il potenziamento della capacità lavorativa della famiglia, e, dunque, in un certo senso anche le obbligazioni contratte per finanziare l’attività professionale o imprenditoriale dei coniugi, è anche altrettanto vero che non vige, comunque, alcun automatismo per cui ogni debito contratto per l’attività professionale o imprenditoriale può dirsi
automaticamente contratto per far fronte al mantenimento del nucleo familiare (Cass., sez. III, 8 febbraio 2021, n.2904; contra vedi, però, Cass., Sez. I, 25 ottobre 2021, n. 29983).
Insomma, si è fatto strada anche un indirizzo maggiormente garantista verso il debitore, in base al quale è corretto interpretare estensivamente la nozione di bisogni della famiglia al fine di non ampliare eccessivamente l’opponibilità del fondo a danno dei creditori, ma non è corretto offrire una lettura omnicomprensiva dei bisogni della famiglia che includa qualunque obbligazione assunta dai coniugi, compresi i debiti sorti nell’esercizio della loro attività professionale o imprenditoriale (Cass., Sez. I, 27 aprile 2020, n. 8201).
L’ultima tendenza è, dunque, quella di considerare i debiti bancari di uno dei coniugi riferibili all’attività professionale o imprenditoriale comune od esclusiva di questi come obbligazioni di per sè neutre, non necessariamente ricollegabili al mantenimento o allo sviluppo della famiglia.


Per questo, i coniugi potranno opporre il fondo patrimoniale alla banca, dimostrando che il debito d’impresa non aveva alcun nesso con le necessità familiari, non potendosi più presumere il contrario. Ma il dato di maggiore interesse si rinviene nel fatto che, con l’ordinanza qui commentata (cfr. Cass., Sez. III, 28 settembre 2023, n. 27562), la Suprema Corte pare essersi spinta addirittura oltre, ritenendo, oggi, che “…che, nell’esercizio dell’attività di impresa o di quella professionale, le obbligazioni sono assunte, di regola, non già per l’immediato e diretto soddisfacimento dei bisogni della famiglia, bensì ai fini dello svolgimento dell’attività professionale o commerciale”.

Attenzione, però, perchè non è tutto oro quello che luccica!

La pronuncia della Cassazione va, difatti, letta attentamente e applicata tenendo conto delle specificità che connotano ogni singola vicenda e ogni tipo di rapporto bancario. In linea tendenziale, la Suprema Corte afferma che i coniugi debitori possono dimostrare anche in via presuntiva la non inerenza dell’obbligazione connessa all’attività professionale o imprenditoriale di uno di questi ai bisogni della famiglia, giovandosi anche del fatto che, di regola, questo tipo di
obbligazioni non sono direttamente e immediatamente ricollegabili alle esigenze del nucleo familiare.
Ma la Corte afferma che, indipendentemente da ciò, occorre, comunque, un accertamento caso per caso, per ritenere l’estraneità dell’obbligazione professionale o d’impresa alle necessità familiari.
Si impongono alcune riflessioni.
Per esempio, quando uno dei coniugi abbia una propria attività professionale o artigianale esercitata in forma individuale e da questa tragga il reddito necessario a mantenere la propria famiglia potrebbe risultare più difficile sostenere che uno scoperto di conto corrente con la banca sia estraneo ai bisogni della famiglia, e ciò proprio per il fatto che vi è una necessaria coincidenza tra coniuge e professionista o tra coniuge e titolare dell’impresa individuale debitrice della banca.
Del resto, in tal caso, si tratterebbe di un’obbligazione assunta direttamente da un coniuge per il proprio lavoro personale da cui, però, ritrae direttamente il reddito necessario a mantenere sè e la sua famiglia. Ancor più complessa appare, poi, la dimostrazione dell’estraneità ai bisogni familiari di debiti bancari contratti da un’impresa familiare ai sensi dell’art. 230 bis c.c.. Più ricco di sfumature è, invece, il discorso che riguarda eventuali debiti derivanti da fideiussioni
prestate in favore di società di capitali.


In questa ipotesi, l’obbligazione verso la banca non viene assunta dal coniuge per sè stesso ma in favore di un soggetto giuridicamente terzo ovvero di una società e poco importa, secondo la Suprema, che il coniuge sia socio od amministratore della società garantita.
Infatti, qualora, come nella specie, “…si tratti di fideiussione stipulata a garanzia dell’adempimento delle obbligazioni di società commerciale (alla quale i coniugi erano interessati, in quanto soci), deve ritenersi che essa abbia invero la immediata e diretta funzione di garantire le obbligazioni commerciali della società, soggetto terzo rispetto al nucleo familiare…” (cfr. sempre Cass., Sez. III, 28 settembre 2023, n. 27562).
La prospettiva viene, quindi, rovesciata: è la banca a dover dimostrare l’inerenza del finanziamento bancario e della correlata fideiussione ai bisogni della famiglia. Ma come?
La Cassazione, a riguardo, non è di tante parole, lasciando, tuttavia, intendere che la banca potrebbe dimostrare l’inerenza del finanziamento e della connessa garanzia ai bisogni della famiglia fornendo la prova che il finanziamento ricevuto dalla società non era strettamente necessario a far fronte ad esigenze sociali, ma era funzionale piuttosto al raggiungimento di obiettivi o necessità della famiglia, raggiunti o soddisfatti per il tramite della società, come se l’impresa fosse una sorta di “longa manus” dei coniugi. La casistica potrebbe essere la più varia.
Si pensi, ad esempio, ad una società immobiliare partecipata dai coniugi che venga finanziata da una banca con garanzia personale dei coniugi e che il finanziamento sia stato destinato ad acquistare un immobile che in concreto viene impiegato dalla famiglia.


In tal caso, l’obbligazione sarebbe stata solo apparentemente assunta per esigenze sociali, dato che, in realtà, i soldi sarebbero stati impiegati per le esigenze abitative della famiglia che possiede la società.
O, in generale, a tutti quei casi in cui la società garantita venga impiegata come “cassa” della famiglia ovvero a quelle situazioni in cui risorse proprie della società siano state distratte al di fuori della società stessa per far fronte a necessità familiari.
In questo tipo di situazioni, del debito personale del coniuge nascente dall’inadempimento della società garantita dovrebbe rispondere anche il fondo patrimoniale, sempre che la banca dimostri che il denaro ricevuto non sia stato impiegato per il raggiungimento di finalità sociali ma per soddisfare direttamente o indirettamente esigenze familiari.
Non è, però, solo questo il caso.

Il fondo potrebbe rispondere anche quando si tratti di garanzie per obbligazioni sociali che, a suo tempo, sono state funzionali al positivo andamento della società, i cui proventi, in luogo di essere stati reinvestiti, sono stati magari goduti dai coniugi/soci sotto forma di utili d’impresa.
In altri termini, se i coniugi hanno garantito la loro società e i finanziamenti ottenuti hanno determinato un miglioramento dell’andamento della società, anche tramite distribuzione di maggiori utili d’impresa, e la famiglia ne ha tratto giovamento, il fondo dovrebbe rispondere per il debito derivante dalla garanzia, in quanto della garanzia non avrebbe tratto vantaggio solo la società ma anche la famiglia stessa che avrebbe migliorato le sue possibilità economiche e il suo
tenore di vita.


Fuori da queste eventualità, invece, ogni volta che la fideiussione viene prestata dal coniuge per esigenze prettamente sociali, il fondo non dovrebbe rispondere e alla banca sarebbe inibito ipotecare o pignorare la casa familiare.


Pertanto, se la banca dovesse agire per una fideiussione relativa a finanziamento concesso per l’acquisto di beni strumentali o per la copertura di un precedente scoperto, i coniugi dovrebbero poter opporre la destinazione dei loro beni al fondo patrimoniale, bloccando l’azione esecutiva e, spesso, salvando la loro casa. Insomma, quando si tratta di debito bancario e fondo patrimoniale è decisivo fare una valutazione preliminare del caso e considerare attentamente l’impiego e il risultato prodotto dal finanziamento garantito dai coniugi.

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